Velenoso lo si credeva o, nel migliore dei casi, buono solo per abbellire le case azteche. Guai a mangiarlo, il pomodoro.
Uno dei simboli più diffusi della gastronomia italiana se l’è dovuta guadagnare faticosamente la considerazione di cui gode oggi.
Dal Cinquecento in poi, lenta ma inesorabile comincia l’ascesa del giallo ortaggio (il colore originario del Pomo d’oro): qualcuno, probabilmente spinto dalla fame, si accorge che velenoso non è e comincia a mangiarlo e a coltivarlo.
Ma ancora prima di arrivare sulle nostre tavole, nel Seicento viene usato al posto delle rose per essere regalato come pegno d’amore o come indecente proposta subliminale. Infatti, per un certo periodo lo si considera un antesignano del Viagra, attribuendogli nomi ch’erano tutto un programma: pomme d’amour in Francia, love apple tra i sudditi di Sua Maestà.
L’evoluzione successiva, alle nostre latitudini, è sotto gli occhi di tutti e consente di perdonare Cristoforo Colombo che, col suo girovagare, oltre al pomodoro, ci ha consegnato anche certi orrori gastronomici come il burro d’arachidi. Qualcuno si è spinto ad attribuirgli la responsabilità (o il merito) della Coca Cola, ma noi non ci sentiamo di avallare questo capo d’imputazione.
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IL DIBATTITO, SÌ!
Lo Scambio Colombiano è il primo grande fenomeno di globalizzazione: ortaggi, malattie infettive, frutti, droghe, animali più o meno domestici passano dal Vecchio al Nuovo Mondo e viceversa. Facciamo un esperimento di fantastoria e immaginiamo la nostra gastronomia senza la scoperta dell’America.