In siciliano caliare significa tostare, per cui la calia è ceci tostati e leggermente salati che si comprano nei giorni di festa. E le feste, in Sicilia, sono soprattutto le ricorrenze religiose. La festa – di Sant’Agata a Catania, di Santa Rosalia a Palermo, di Santa Lucia a Siracusa. Quello della calia è il sapore rassicurante della devozione.
La calia si compra dagli ambulanti che te la preparano davanti, cuocendo i ceci in mezzo alla sabbia nera dell’Etna, indovinando la giusta cottura, che’ basta un minuto in più e il cecio si brucia.
La calia si serve in un coppo di carta paglia, ingrediente anch’esso col suo odore caratteristico e si mangia passeggiando. E parlando. E guardando. E facendosi guardare. E sparlando. E salutando.
Cinquant’anni fa ci si sposava con la calia, altro che catering. E, per l’occasione, lo sposo spesso indossava le scarpe ereditate dal padre, che le aveva ereditate dal padre e che si usavano solo per le ricorrenze.
Poi, in virtù di un illuminato modello di sviluppo, s’è deciso che la Sicilia doveva essere sfamata e avvelenata: la SINCAT e la Montecatini Edison hanno colonizzato le coste siciliane, ornandole con le loro ciminiere, e allora la calia è scomparsa dai banchetti. Sono arrivati i soldi, lo stipendio fisso, i matrimoni con la pagliefieno e il vitel tonné, il banqueting, e io a mia figlia i diciott’anni glieli ho festeggiati in discoteca e ci ho fatto pure il book.
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